Maltrattamenti in Famiglia

maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia ed esecuzione della pena

Esecuzione della pena per il delitto di maltrattamenti in famiglia
in seguito all’entrata in vigore al D.L. 78/2013

Cass. pen. n. 45884 del 30 ottobre 2014

Con la sentenza n. 45884 del 30 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna avverso l’ordinanza emessa dallo stesso Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, annullandola senza rinvio.

In particolare, con la predetta ordinanza il Tribunale di Ravenna annullava l’ordine di esecuzione della pena emesso dalla Procura della Repubblica in relazione alla sentenza irrevocabile di condanna per il reato ex art. 572 c.p. nei confronti di T.D., in quanto non preceduto dal decreto di sospensione di cui all’art. 656 c.p.p., comma 5, che si imponeva – sulla scorta di quanto sostenuto nell’apposita istanza difensiva – “nel rispetto del principio tempus regit actum, in applicazione della legge processuale vigente al passaggio in giudicato della sentenza”.

È opportuno dunque comprendere quale fosse la legge processuale vigente nel caso esaminato, atteso la Procura emetteva l’ordine di esecuzione della pena il 3 luglio 2013, data dell’entrata in vigore del D.L. n. 78 del 2013.

La legge sopravvenuta modificava il comma 9, lett. a), dell’art. 656 c.p.p., includendo tra i delitti ostativi alla sospensione dell’esecuzione della pena detentiva anche il reato di cui all’art. 572 c.p. (per il vero, limitatamente al secondo comma, successivamente abrogato dall’art. 1, comma 1-bis, L. 15 ottobre 2013, n. 119), per il quale era stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna.

Secondo i Giudici della Suprema Corte, con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Ravenna aveva erroneamente applicato la disciplina processuale vigente alla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (31 ottobre 2012) in luogo del sopravvenuto D.L. n. 78 del 2013, entrato in vigore nella medesima data di emissione dell’ordine di esecuzione.

Correttamente invece il Pubblico Ministero non pronunciava il decreto di sospensione della pena, applicando la nuova disciplina ex art. 656 c.p.p.,comma 9, lett. a), “in ragione del fatto che il rapporto processuale di esecuzione non si era affatto esaurito al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina, non essendo ancora nemmeno iniziato” (Cass. pen. n. 45884 del 30 ottobre 2014).

La pronuncia della Corte di Cassazione,

conformemente ad un precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha infatti dato seguito all’ormai consolidato principio secondo il quale “lo ius superveniens deve essere applicato nei confronti di tutti i condannati per i delitti per i quali vige il divieto di sospensione, per i quali non sia iniziato o sia ancora pendente il rapporto processuale di esecuzione” (Cass. Sezioni Unite n. 24561 del 30 maggio 2006).

Le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive, aventi carattere processuale e non già sostanziale, soggiacciono invero – in assenza di una specifica disciplina transitoria – al principio “tempus regit actum”, e “non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 c.p., e dall’art. 25 Cost.” (Cass., Sezioni Unite, n. 24561 del 30 maggio 2006).

In senso analogo, con riferimento all’ipotesi di esecuzione delle misure cautelari, una successiva pronuncia dei Giudici di Piazza Cavour ha altresì disposto che “non esistono principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale (Vedi Corte Cost. 14 gennaio 1982, n. 15)” (Cass.,Sezioni Unite, n. 27919 del 31 marzo 2011).

Orbene, nel caso di specie, al reato di Maltrattamenti in famiglia – pur non incluso al momento della commissione da parte di T.D., né alla data del passaggio in giudicato della sentenza, tra i delitti ostativi alla sospensione dell’esecuzione – è stato applicato l’art. 656, comma 9, lett. a) c.p.p., così come modificato dal D.L. n. 78 del 2013, pur se meno favorevole al condannato.

Può pertanto concludersi che la decisione in esame ha confermato il principio processuale “tempus regit actum” che, seppur confliggente con le regole in materia di successione delle leggi penali sostanziali nel tempo e, in questo caso, con il principio del “favor rei”, appare però rispettoso della ratio del D.L. n. 78 del 2013, coincidente, da un lato, con l’urgenza di ridurre con effetti immediati il sovraffollamento delle carceri e, dall’altro, con la necessità di introdurre modifiche alle norme relative all’esecuzione delle pene detentive e alle misure alternative alla detenzione, con riferimento ai reati di particolare allarme sociale, tra i quali, per l’appunto, il delitto ex art. 572 c.p..

LA SENTENZA

Cassazione penale n. 45884 del 30 ottobre 2014.

FATTO

  1. Con ordinanza emessa il 4 dicembre 2013 il Tribunale di Ravenna, quale giudice dell’esecuzione, annullava l’ordine di esecuzione della pena di anni due e mesi uno di reclusione, emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna il 3 luglio 2013 nei confronti di T.D., in relazione alla sentenza emessa dallo stesso tribunale l’11 febbraio 2009, divenuta irrevocabile il 31 ottobre 2012, con cui l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 572 c.p.. Tale provvedimento veniva adottato, in accoglimento di apposita istanza difensiva, sul presupposto che l’ordine di esecuzione non era stato preceduto dall’ordine di sospensione di cui all’art. 656 c.p.p., comma 5, che si imponeva, nel rispetto del principio tempus regit actum, in applicazione della legge processuale vigente al passaggio in giudicato della sentenza.
  2. Avverso tale ordinanza la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna ricorreva per cassazione, eccependo quale motivo unico, l’erronea applicazione dell’art. 656 c.p.p., comma 9, lett. a). Si deduceva, in particolare, che la modifica dell’art. 656 c.p.p., comma 9, lett. a), conseguiva all’approvazione del D.L. 1 luglio 2013, n. 78, entrato in vigore il 3 luglio 2013, nella stessa data dell’ordine di esecuzione emesso nei confronti del T.. In quel momento, doveva applicarsi la nuova disciplina dell’art. 656 c.p.p., comma 9, lett. a), che aveva inserito il reato di cui all’art. 572 c.p., tra quelli ostativi alla sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dal comma 5 della stessa disposizione. Ne consegue che, nel caso di specie, è l’applicazione del principio tempus regit actum richiamato nell’ordinanza a rendere evidente l’erroneità del presupposto processuale sulla base del quale veniva adottata.

DIRITTO

  1. Il ricorso proposto dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna è fondato e impone l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza n. 129/2013 emessa il 4 dicembre 2013 dal Tribunale di Ravenna. Deve, in proposito, rilevarsi che, come correttamente dedotto dal ricorrente, l’art. 656 c.p.p., comma 9, lett. a), così come riformulato dal D.L. n. 78 del 2013, art. 1, entrava in vigore il 3 luglio 2013, nella stessa data di emissione dell’ordine di esecuzione legittimamente emesso dal pubblico ministero nei confronti del T.. Ne discende che è a quella data che occorre fare riferimento per individuare la disciplina dell’art. 659 c.p.p., comma 9, lett. a), applicabile nei confronti del ricorrente, tenendo conto che il reato di cui all’art. 572 c.p., rientrava tra quelli ostativi alla sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dal comma 5 della stessa norma. In questo ambito, occorre evidenziare che l’art. 656 c.p.p., comma 9, lett. a), individua i reati ostativi alla sospensione dell’esecuzione della pena detentiva attraverso il rinvio alla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 4 bis. Si tratta di un rinvio dinamico, perchè non recepisce materialmente la norma richiamata e i suoi presupposti soggettivi di applicabilità, ma si limita ad affidare alla stessa norma l’individuazione delle categorie di delitti per i quali non si applica la sospensione delle pene detentive brevi.

Ne discende che il catalogo dei delitti ostativi alla sospensione iniziale della carcerazione breve è identico a quello dei delitti ostativi alla concessione delle misure alternative alla detenzione; il che corrisponde perfettamente alla ratio dell’istituto di cui all’art. 656 c.p.p., comma 5, atteso che la sospensione della detenzione è funzionale alla eventuale applicazione delle misure alternative alla detenzione, anche se prescinde dal controllo sui requisiti soggettivi di applicabilità delle misure stesse, che è affidato al solo tribunale di sorveglianza.

In altri termini, in relazione alla condanna per uno dei delitti ostativi – tra i quali deve essere compresa la fattispecie dell’art. 572 c.p., per la quale il T. ha riportato condanna definitiva – il pubblico ministero deve emettere l’ordine di carcerazione senza disporne contestualmente la sospensione; ma il condannato, una volta ristretto in carcere, potrà formulare istanza per ottenere una misura alternativa alla detenzione o altro beneficio, che il tribunale di sorveglianza potrà concedere laddove ricorrano gli indici di attenuata pericolosità sociale previsti dall’art. 4 bis ord. pen..

Passando, invece, a considerare la questione della disciplina applicabile al caso di specie si consideri che le Sezioni unite di questa Corte, intervenendo su una fattispecie analoga, ha ridefinito i confini applicativi del principio del tempus regit actum, in una direzione opposta a quella richiamata nell’ordinanza impugnata, affermando che le modifiche legislative che incidono sui presupposti degli obblighi che competono al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 656 c.p.p., commi 5 e 9, si applicano a tutti i rapporti esecutivi non ancora esauriti al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina.
In quel caso, le Sezioni unite sottolineavano che lo ius superveniens deve essere applicato nei confronti di tutti i condannati per i delitti per i quali vige il divieto di sospensione, per i quali non sia iniziato o sia ancora pendente il rapporto processuale di esecuzione, in quanto la richiesta del condannato di incidente di esecuzione e il successivo ricorso del pubblico ministero avverso l’ordinanza emessa dal giudice dell’esecuzione comportano la pendenza del rapporto esecutivo (cfr. Cass. Sez. un., n. 24561 del 30 maggio 2006, dep. 17 luglio 2006).

Nè potrebbe essere diversamente se solo si considera che l’art. 656 c.p.p., commi 5 e 9, introduce una disciplina che regola l’attività del pubblico ministero come organo deputato all’esecuzione penale, definendo i presupposti del suo obbligo di sospendere l’esecuzione delle pene detentive inferiori a una soglia determinata, anche operando un rinvio all’art. 4 bis Ord. Pen., per individuare i delitti ostativi al detto obbligo di sospensione.

E’ logico, quindi, che ogni eventuale modifica di questa composita disciplina, anche di quella relativa ai delitti che ostano alla sospensione della carcerazione, debba applicarsi – secondo il principio tempus regit actum – a ogni esecuzione penale in corso, rimanendone esclusi i soli rapporti esecutivi già esauriti (cfr. Sez. 1^, n. 999 dell’11/02/2000, dep. 08/03/2000, Patì, Rv. 215502).
In questa cornice sistematica, è indubbio che l’ordinanza impugnata ha violato il principio tempus regit actum affermando, contrariamente all’interpretazione costante di questa Corte, che il passaggio in giudicato della sentenza di condanna nei confronti del T. – avvenuto il 31 ottobre 2012 -costituiva l’elemento temporale al quale attribuire rilevanza per l’applicazione della nuova disciplina processuale.

Ne discende conclusivamente che l’ordinanza impugnata è stata emessa in violazione di legge, in quanto il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto valutare come corretta l’applicazione da parte del pubblico ministero procedente della nuova disciplina dell’art. 656 c.p.p., comma 9, lett. a), che vieta la sospensione dell’esecuzione per i soggetti che debbano espiare una pena inflitta per il reato di maltrattamenti in famiglia, in ragione del fatto che il rapporto processuale di esecuzione non si era affatto esaurito al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina, non essendo ancora nemmeno iniziato.

  1. Per le ragioni che si sono esposte l’ordinanza emessa il 4 dicembre 2013 dal Tribunale di Ravenna, quale giudice dell’esecuzione penale, deve essere annullata, contestualmente disponendosi comunicazione al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna per quanto di competenza.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata, disponendo comunicazione al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna per quanto di competenza.

Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2014. Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2014

Può applicarsi la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 656, comma 5 c.p.p. nei confronti del condannato in via definitiva per il delitto di maltrattamenti in famiglia commesso prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 78 del 2013?

LA MASSIMA

L’art. 656 c.p.p., commi 5 e 9, introduce una disciplina che regola l’attività del pubblico ministero come organo deputato all’esecuzione penale, definendo i presupposti del suo obbligo di sospendere l’esecuzione delle pene detentive inferiori a una soglia determinata per individuare i delitti ostativi al detto obbligo di sospensione.

È logico, quindi, che ogni eventuale modifica di questa composita disciplina, anche di quella relativa ai delitti che ostano alla sospensione della carcerazione, debba applicarsi – secondo il principio tempus regit actum – a ogni esecuzione penale in corso, rimanendone esclusi i soli rapporti esecutivi già esauriti. Cassazione penale n. 45884 del 30 ottobre 2014.

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